Maurizio Caserta
Il bel libro di Elita Schillaci e Cristina Longo, Territori Imprenditoriali, edito da Rubbettino e uscito il mese scorso, può essere letto in tre modi diversi: come un’indagine su un’unità concettuale; come la storia di un percorso intellettuale; come un manifesto politico. L’unità concettuale è il territorio; il percorso intellettuale è quello di due donne che, sia pure da punti di partenza diversi, coniugano l’attività intellettuale con l’azione riformatrice; il programma politico è progettare un territorio vitale, aperto e responsabile.
L’indubbio punto di partenza delle autrici è il ruolo dell’imprenditore. L’imprenditore non coincide con l’impresa, che è invece un’organizzazione; l’imprenditore è una persona in carne ed ossa. Seguendo Schumpeter, l’imprenditore non è né un capitalista né un manager, ma un motore di sviluppo. Un’economia senza imprenditori è un’economia sempre uguale a se stessa. È l’imprenditore che introduce nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione, apre nuovi mercati, conquista nuove fonti di approvvigionamento, applica nuovi sistemi organizzativi. L’imprenditore percepisce nuovi bisogni e individua soluzioni per soddisfarli. È in definitiva colui che accetta la sfida dell’incertezza. È colui che percepisce le opportunità di profitto prima degli altri e agisce di conseguenza. È vigile e attento: una attenzione ed una tensione che è essenziale per la vita e la crescita delle comunità.
La domanda posta nel libro è se un intero territorio può assumere su di sé il compito e le responsabilità che tradizionalmente sono state attribuite agli imprenditori. Ossia se un territorio può diventare collettivamente motore di sviluppo, prestare incessante attenzione ai bisogni, cercare le soluzioni, assumere azioni concertate, controllare se il cammino intrapreso è quello giusto. In altri termini si chiede se un territorio può avere un’identità ed un’anima. Questo punto è il cuore del programma scientifico delle due autrici ma anche il cardine del loro manifesto politico, laddove il libro sia letto anche in questo senso. La risposta è ovviamente positiva: tutto il libro consiste proprio nella puntuale indicazione delle condizioni che devono essere soddisfatte perché un territorio possa acquisire quella identità e quell’anima, e perché queste a loro volta sono condizioni di sviluppo e di crescita.
Un territorio che sappia intercettare i bisogni, interni ed esterni, che organizzi le sue forze per cercare e fornirvi una soluzione, che trasformi quella ricerca in un’occasione di crescita per tutti, è un territorio competitivo. Ciò significa che esso è capace di riprodursi nel tempo su basi via via più solide, anche in un contesto in cui la competizione può essere particolarmente dura.
È possibile, infatti, che un territorio venga espulso dalla competizione, spinto su un percorso di marginalità e, in alcuni casi, perfino di estinzione. Questa possibilità è sempre considerata dalle autrici quale esito indesiderabile di un percorso cui manchino quegli elementi che rendono il territorio socialmente e collettivamente responsabile. Sono proprio queste, infatti, le parole chiave di un territorio competitivo: intenzionalità collettiva, responsabilità sociale, senso del bene comune. Ed è qui che l’indagine sull’unità concettuale ‘territorio’ s’intreccia con la storia di un percorso intellettuale.
Vi è, a ben leggere tra le pagine del libro, una continua trasposizione tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva, quasi ad imporre su quest’ultima gli elementi e le caratteristiche della prima; quasi a voler chiedere ad un soggetto collettivo, sempre difficile da tratteggiare, una intenzionalità ed una responsabilità che sono proprie dell’individuo. Siamo su quel terreno difficile ed accidentato della somma delle decisioni individuali che a volte fa emergere decisioni collettive che nessuno ha programmato e nessuno desidera.
Ma nel libro c’è un richiamo forte ad una dimensione etica, che diventa la chiave per risolvere il problema della intenzionalità collettiva. Il rischio di avere una somma di buone decisioni individuali che generano una pessima decisione collettiva è sempre presente ma può, nel pensiero delle autrici, essere evitato. È un disegno ambizioso, ma assai intrigante e soprattutto credibile. Il discorso etico è uno di quei discorsi che non si può fare con distacco; se se ne parla, se ne deve condividere appieno il contenuto. Il libro racconta, infatti, sia pure sottotraccia, una storia personale, in modo particolare quella di Elita Schillaci, di proiezione costante verso l’esterno, di tensione emotiva, di pulsioni innovatrici.
Per trasformare un territorio senz’anima in un territorio imprenditoriale occorre dunque molto. Ma la posta in gioco è alta. Non riuscire a farlo condannerà i territori alla marginalità. Da questa prospettiva indesiderabile si esce con coesione sociale e partecipazione allargata, ma si esce anche e soprattutto recuperando quella vigilanza che è propria degli imprenditori, facendola diventare la cifra distintiva del territorio. Essa, tuttavia, non deve essere fredda e calcolatrice ma calda e solidale. Il libro conduce verso territori diversi e forse impossibili, ma è un libro che tutti dovrebbero leggere per la ricchezza dei contenuti, per la passione civile, e per la giusta dose di utopia.
05/12/2010
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Mimmo Costanzo Tecnis SpA
martedì 7 dicembre 2010
Vi segnalo la recensione del libro di Elita Schillaci e Cristina Longo, pubblicata a firma di Maurizio Caserta su “La Sicilia” di domenica 5 dicembre a pagina 16
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