Legalità. Il presidente della Tecnis di Catania rilancia i temi di Ivan Lo Bello
Area grigia nemico da battere
di Mimmo Costanzo*
In Sicilia esistono imprese sane. È difficile, genera costi impropri, obbliga a remare controcorrente, ma si può e si deve fare. Lo devo dire come imprenditore ma soprattutto come cittadino attivo, come civic entrepreneur convinto che la forza della società operosa deve e può prevalere. Sono assolutamente d’accordo con Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, che ha tracciato il nuovo identikit dei poteri criminali a Catania, definita «capitale della mafia imprenditrice». Lo Bello dilata ulteriormente uno squarcio aperto dal brillante lavoro di magistratura e forze dell’ordine, che hanno portato alla luce un intreccio di collusioni fra criminalità organizzata, politica e imprenditoria, laddove – leggendo i resoconti giornalistici – i ruoli sono in alcuni casi talmente sovrapposti da non capire dove comincia lo status di mafioso e dove finisce quello di imprenditore. Una realtà, quella della «permeabilità» del sistema economico al malaffare, che non può essere negata e che il presidente di Confindustria Sicilia ha fatto bene a denunciare.
Io, da imprenditore catanese, penso che la migliore risposta e il più concreto sostegno alla denuncia di Lo Bello si devono dare con i fatti. Ognuno di noi deve fare la sua parte, in un sistema imprenditoriale pulito, che osserva le regole e i modelli di competizione basati su qualità, innovazione e confronto con i mercati internazionali. Ma chi fa impresa in Sicilia ha – oggi più di prima – un dovere in più: emarginare i mafiosi «travestiti» da imprenditori. Ben vengano i codici etici, ben vengano i protocolli d’intesa, ben vengano le espulsioni degli associati collusi con la criminalità. Ma questa non è soltanto una legittima «questione morale». È anche la necessaria tutela del valore più importante per chi fa impresa: la libertà di mercato. Una condizione che viene irreversibilmente «dopata» dalla presenza di un sistema fondato sul ricatto, sull’illecito e sulla sottomissione.
Libertà di mercato, ma non solo. Perché chi fa impresa è tenuto moralmente ad andare oltre la ricerca del profitto. E qui subentra il concetto di responsabilità sociale, che per me rappresenta la bussola morale di chi fa impresa, in un percorso che cerco di compiere ogni giorno nelle mie scelte. Responsabilità sociale non significa soltanto dire no alla mafia, il che è già un risultato importante. Responsabilità sociale significa dare alla propria azienda un ruolo propulsivo per lo sviluppo del territorio e della collettività; significa garanzia della sicurezza e della dignità dei lavoratori; significa tutela dell’ambiente, del territorio e delle culture con un’attenzione all’etica e all’estetica; significa valorizzazione del talento, del merito e della voglia di fare, attraverso un «patto» con le nuove generazioni.
Non sono valori facili mettere in pratica, nemmeno per chi con un cantiere riesce a costruire qualsiasi cosa. Ma forse oggi l’opera più difficile è restare in Sicilia, a Catania. Lavorare in questa terra e per questa terra, rifuggendo dalla tentazione – ricorrente, lo confesso – di lasciare, di andare via. Eppure chi, come me, decide di restare, non lo fa per costrizione né tanto meno per convenienza. Ma per scelta. Una scelta difficile, sofferta, magari dettata più dal cuore che dalla testa. Io, però, sono qui, resto qui, provo a tenere la schiena sempre dritta. E sono fiero di essere un imprenditore, catanese, impegnato ogni giorno a fare nient’altro che il proprio dovere.
* Presidente della Tecnis